Il Fungo di Lacco Ameno

Il Fungo di Lacco Ameno

In questo nostro susseguirsi di ore raziocinanti, caratteristica ormai d'una vita disillusa che ha perso del tutto il gusto della favola, prestiamo fede, per un attimo soltanto, al mito di Tifeo. A quel Tifeo che, folgorato dal fulmine tricuspide, giace sotto il non lieve peso dell'isola d'Ischia. Tifeo nacque da un atto di ribellione (quando si dice il destino!) della dea Giunone andata su tutte le furie perché suo fratello e sposo, Giove, senza il suo concorso di legittima consorte, aveva generato Pallade-Atena, meglio conosciuta con il nome di Minerva. E a niente, presso di lei, valsero le scuse del padre degli uomini e degli dei. La Fama, infatti, ancella di Giove, aveva sparso la voce che, tormentato da atroci dolori al capo che per poco non lo facevano impazzire, questi aveva pregato il fabbro-ferraio Efesto-Vulcano di dargli un'accettata in testa con la scure bene affilata. Efesto-Vulcano non voleva, ma nello stesso tempo temeva l'ira di Giove, ricordandosi di quando questi lo aveva scagliato dall'Olimpo nell'isola di Lemmo in un modo che ancor l'offendeva, difatti era rimasto zoppo. Per il che non esita e con colpo da artista gli spacca la testa in due. Ed ecco balzare di sotto il cervello di Giove una bellissima fanciulla, tutta in armi, che scuote lo scudo e l'asta: la glaucopide Pallade-Atena. Ma Giunone, ben conoscendo il suo sposo nonché fratello, non credette affatto a quella singolare cura d'emicrania divina e volle, anch'ella, generare senza il legittimo concorso del marito. Non si sa come, né con chi, ma generò Tifeo, il quale, poveretto, anche per questo fu odiato da Giove, nonostante che legalmente fosse suo figlio. Tifeo ben presto si ribellò al padre Giove e con altri giganti iniziarono quella leggendaria sassaiòla, che ha commosso più d'un poeta, dal tempo antico ai nostri giorni A dire il vero, la sassaiòla non è priva d'un certo fascino: Tifeo ti sovrappone con estrema facilità il monte Ossa al Pelio; Giove, per il momento, è impotente dato che il titano gli ha tagliato i nervi. Ma c'è Mercurio, l'esile e delicato Mercurio, il quale aveva una certa grazia nel fregar la gente. Non c'è da meravigliarsi, dunque, se riesce a ridare a Giove i nervi, rubandoli a Tifeo. Giove tutto contento gli dà uno scappellotto, "Guarda!", gli dice e lancia il fulmine tricuspide. Poi afferra un'isola, senza badare ch'era quella che Venere aveva scelto a sua dimora, e la scaglia addoso a Tifeo prima che si riprenda dallo choc traumatico, causatogli dal fulmine. Mercurio applaude e, non volendo essere da meno, afferra un macigno, adatto alla sua forza, e lo scaglia. Ma sbaglia mira. E da quel giorno il macigno, lanciato da Mercuio, è sempre là, distante un cento metri dall'isola lanciata da Giove.

L'approdò di Venere

Ed un giorno a quello scoglio approdò Venere. Fuggiva l'ira del suo legittimo sposo, Efesto-Vulcano, quel dio, cioè, che aveva fatto da ostetrico a Giove per il parto di Pallade-Atena. Efesto era rimasto meravigliato, attonito a tanta bellezza, nata dal cervello di Giove. Se ne era innamorato ancor più quando la vide ballare la pirrica, la danza armata, e l'aveva chiesto in isposa a Giove, dimenticando Venere, sua legittima sposa. Di questo affronto volle vendicarsi la dea e tradì il suo sposo con Marte, mentre Gallo, l'auriga di questi, montava di guardia. Venere si era tanto raccomandata: "Dài l'allarme allo spuntar del sole. Sta attento: il sole è amico di mio marito, che nelle fucine dell'Etna gli forgia i raggi". Ma Gallo si addormentò e il sole fece da guida a Vulcano per sorprendere la moglie mentre accoglieva sul suo divino grembo Marte. Questo poi condannò Gallo a cantare per l'eternità lo spuntar del sole, ma Venere dovette fuggire e con le sue ninfe aprodò allo scoglio, che Mercurio aveva lanciato contro Tifeo, sbagliando mira. - Fermiamoci, mie pupille. Fermiamoci su questo scoglio. Qui ci blandirà come sogno l'onda e, azzurro come l'onda, il nostro sogno ci allieterà d'amori a noi negati. E le ninfe, per distrarre la dea, su quello scoglio ignudo, cantarono d'amore senza nalinconia. E linee tonde e rette, pelurie, curve, tremiti divini si misero a danzare. D'un tratto sembrò che quel macigno avesse un fremito. Poco distante, sulla sponda, c'era un'erba marina, fredda e salata, ma nel più profondo un umano sentimento sanguinava. Venere aprì stupita le braccia dicendogli il suo nome, emergendo leggera fino alla trasparenza dalla profondità dove brillava un desiderio, il desiderio del Titano Tifeo. - Tu, o dea, che reggi l'universo con l'amore, accogli, o alma Venere, il mio desiderio. Sì, lo so... su questa terra che m'incatena scorrono ruscelli, lavacri ad ogni dolore ed eternamente la giovinezza sorride. Ma tu, o dea, fa che il mio nome non cada nell'oblio. Fa che qualcosa, o dea, di lontano richiami lo sguardo ed il ricordo; in quel qualcosa, o dea, fa che tutti riconoscano e sussurrino: quella è la terra che incatena Tifeo! C'è tanta bellezza, sì è vero, sulla terra che mi schiaccia, ma tu, o dea, comprendi. Son tanto belli i tuoi occhi e i tuoi capelli al vento, ma lo sguardo degli dei s'affisa, ti riconosce e ti ricorda per quel tuo seno. Le ninfe arrossirono al rossore di Venere. Ma la dea sorrise. - Dammi la mano, o titano.

Venere e il Titano

L'isola ebbe un tremito, un sussulto. Il titano alzò un braccio che, a mezz'aria, sembrava una minaccia e l'ombra atterrì le ninfe. Venere carezzò quella mano. - La tua mano è ferita. Sanguina. Hai il mignolo e l'anulare stroncati. Soffri? - Il titano non rispose. Venere commossa sembrò portarsi quella mano al petto. Certo, come d'incanto, non sanguinò più. Solo un rivoletto, venatura di sangue sul seno della dea, che pianse, ricordando forse Atteone, il giovanetto da lei amato e che la gelosia di Marte aveva fatto dilaniare da un cinghiale. Invocò l'aiuto del re degli abissi marini e Nettuno con il tridente sollevò lo scoglio che Mercurio aveva lanciato. - Poggia il tuo braccio nelle profonde convalli marine, o sfortunato titano - sussurrò la dea. Tifeo ubbidì e Nettuno poggiò quello scoglio sulle tre dita, rinvigorite per l'eternità, del gigante vinto. E le ninfe, a un cenno della dea, abbandonarono Venere e si confusero con le onde, con il mare, il quale, da secoli, ora carezzando quello scoglio in risacca, ora schiaffeggiandolo con i marosi, ha dato ad esso la caratteristica forma di Fungo. Ed il Fungo, d'allora, non è solo uno scoglio, caratteristica d'un panorama, ma esso stesso un panorama. Da secoli è il nume tutelare, il Genio del luogo. E quando le onde, le antiche ninfe di Venere, carezzandolo gli parlano d'altissimi monti e stelle alpine; di laghi, di fiordi, dei templi e dei porti; delle aurore boreali, dei fiori dei tropici e di ogni incredibile bellezza del mondo, egli sorride alla cristallina nudità marina e par che sussurri: tutti gli anni mi delizia April con gli altri mesi nel mio mare, nel mio giardino. Io amo un'isoletta qui che sempre davanti mi sta.

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